Nell’anno in cui ricorre il centenario della sua nascita e 25 anni dalla sua morte, volevamo iniziare la rubrica magazine di FIDIA Factory, con la pubblicazione di un estratto di un’intervista del 1996, ma ancora oggi attuale ed importante per conoscere il pensiero, l’approccio alla vita e perché no quelle verità, a volte oggettivamente equilibrate, a volte meno, del fotografo marchigiano per eccellenza: MARIO GIACOMELLI.
Un’intervista inserita in una tesi di laurea in cui si disquisisce sulla tecnica fotografica e la creatività artistica dei fotografi italiani; mai pubblicata, forse per custodire gelosamente quell’incontro a Senigallia in una tiepida mattinata di ottobre, trascorsa tra la Tipografia Marchigiana ed il Bar Centrale, dove il maestro sorseggiava caffè amaro con arachidi salate.

Lei ha dipinto e scritto poesie oltre a fotografare. Perché ha preferito, alla poesia ed alla pittura, l’immagine fotografica come mezzo espressivo principale?
Un perché preciso non c’è, tutte sono delle esperienze. Ho iniziato facendo una cosa, poi ne ho fatta un’altra… in fondo tutto parla d’arte, è uguale per me scrivere poesie, dipingere, o fotografare, l’importante è potersi esprimere, guardarsi dentro, ecco perché non faccio nessuna distinzione. La fotografia l’ho preferita alle altre poiché, come linguaggio, trovo che sia il più moderno infatti oltre ad esprimerti puoi anche documentare.
Le sue immagini sono lo specchio dell’anima, ma i suoi pensieri, le sue sensazioni sono sempre così tristi?
Normalmente questa tristezza, questa malinconia, è dentro di me non ne ho colpa, quindi non saprei mai fotografare una persona che ride, perché mi dà fastidio. Il motivo di questa tristezza non me lo sono mai chiesto, poi non saprei modificare la mia parte interiore, perché in fotografia devo essere me stesso. È il mondo che purtroppo mi costringe, e costringe chi è onesto con la propria persona, a far ciò; non so vedere o parlare di cose frivole, inutili, e le cose che nella vita vengono considerate grandi, lo dico a malincuore, sono quelle tristi.

Nel materializzare un’idea su carta fotografica, lei vuole esprimere ciò che vive, che sente. Questo risulta essere anche un modo per esorcizzare la tristezza?
No, io non devo esorcizzare nulla. Nel mio lavoro, fotografo i miei pensieri, le mie idee, ed i risultati, che generalmente testimoniano tristezza e malinconia, forse danno fastidio o suonano male non so… a chi non ama questa tristezza. Però non posso farci niente, è quello che sento, di conseguenza fotografando vengono fuori immagini aventi un comune denominatore.
Lei dice di aver paura di invecchiare, ma non di morire, solo perché la vecchiaia è il prezzo da pagare per una vita?
La morte può essere paragonata ad un capitolo che si chiude, e tutto è finito, la vecchiaia invece mi fa molto più paura, perché presuppone non conoscere cosa ti riserva il domani, in sostanza vorrei dire… si muore ogni giorno, tutti i giorni noi moriamo, la morte arriva con i giorni che vivi, ma questi giorni potrebbero essere anche felici, completi, cioè pieni di tutte quelle cose che tu vorresti. Per me la vecchiaia non è quando una persona ha ottanta, novanta o cento anni, è vecchio chi non ama la vita o non vuol prenderla per quello che realmente è; vivere comporta sacrificio, lacrime, non solo gioia. La vecchiaia mi fa paura perché so che oggi ho un giorno più di ieri, spero sempre che il mio cervello mi porti dal verso giusto, e che quel giorno che vivo come oggi, possa viverlo come fosse l’ultimo della vita, con le cose che mi interessano di più. La morte non mi angoscia, certo non è che la desidero, so che arriva e non ne parlo mai, è la vecchiaia che mi fa paura, ma a differenza della morte, la potresti scacciare, allontanare, e se non lo fai, ecco… da quel momento ti considero una persona vecchia. Tu muori tutti i giorni, come del resto anch’io, ma tu muori senza aver vissuto, io invece sono felice perché ogni giorno ho provato a viverlo al massimo, facendo le cose che più amo.

Cosa mi dice riguardo al fatto di esser conosciuto, ricordato e amato per immagini che lei definisce meno importanti di altre, come quelle dei Pretini?
Riguardo ai Pretini è nata una moda e le richieste mi vengono specialmente dall’America, dall’Inghilterra e dalla Francia. Tanto per dire, se in una mostra ci sono esposte due immagini dei Pretini, se ne vendono due, se ce ne sono tre, ne vendiamo tre, ma non per questo io stampo tenendo conto della domanda. Il fatto poi di essere ricordato… non mi sono mai posto questo problema, non mi è mai venuto in mente niente a proposito di quello che può rimanere, come vengono amate, se vengono amate le mie fotografie; a me cresce la gioia quando la critica, gli appassionati ed i cultori dicono bene di alcune stampe che mi piacciono meno di altre, perché io potrei sbagliare; tutto ciò sembra un discorso scemo, però è allora vero che le mie fotografie piacciono tutte.

Vedendo le sue fotografie si nota una certa predilezione per il bianco e nero rispetto al colore, infatti con l’utilizzo di quest’ultimo ha realizzato solo un complesso di opere: “Spazio Poetico”. Perché questo tema lo ha affrontato usando la pellicola a colori e cosa pensa in generale del colore in fotografia?
Del colore in fotografia non ne penso un gran bene, per un’infinità di ragioni, io adopero il bianco e nero perché in esso c’è più colore che nel colore stesso, si deve concedere un po’ di fantasia poi a chi osserva; il compito di chi guarda è quello di vedere i colori anche se non ci sono. Se guardi il sole lo vedi nel suo colore naturale, ma se un pittore nel riportarlo su di un quadro lo dovesse fare azzurro o di qualsiasi altra tinta, tu ti accorgi lo stesso che si tratta del sole, quindi non c’è bisogno dei colori. Per me è importante adoperare il bianco e nero perché in esso c’è una parte di malinconia e di tristezza; ho provato una volta andando a Lourdes ad utilizzare un rullo a colori, ma tornato dal viaggio, ho visto che mentre le immagini in bianco e nero mi davano l’idea esatta di quello che volevo, quindi tutta la tristezza ed il dolore che si muovevano in quella piazza, le foto a colori no. Da una parte ho visto quello che veramente era Lourdes, questa voglia di scappare non so dove, questo piangere dentro; nelle immagini a colori quelle carrozzine sembravano tanti francobolli incollati sulla carta, invece della tristezza si trova l’allegria. È giusto che il colore esista e che i fotografi ne tengano conto, ma se lo dovessi usare, dato che prima dipingevo, lo userei in pittura. “Spazio-Poetico” è un titolo messo a caso, vuole dire tutto e niente, consiste in uno spazio che mi sono preso, una libertà per convincermi ancora di più che nella fotografia in bianco e nero riesco meglio ad esprimermi.
È d’accordo con l’affermazione: “Per approdare alla ribalta in qualsiasi settore non serve solo essere bravi e capaci”?
Personalmente guardo le cose che conosco, quindi parlo di me, io ho fatto solo fotografie, non mi sono assolutamente preoccupato se la critica si potesse accorgere del mio operato, o se ad essa andavo bene, non lavoro per i critici né per nessun altro, ma per me stesso, mai fatto le cose per gli altri …mai …mai! Mi piace conoscere il giudizio altrui, non mi interessa che tutti siano favorevoli, anzi sarebbe un male. Sono molto felice invece, che le mie cose hanno interessato Burri il pittore dei sacchi, mi dà una felicità enorme tutto ciò, forse più che l’interesse dei critici, infatti per questi ultimi necessita vedere fin dove sono preparati e cosa conoscono realmente. Andare dietro a quello che vogliono gli altri per me è contro natura, non mi preoccupo delle persone che mi circondano ma di capire me stesso.
Immagini un attimo che la sua attività fotografica iniziasse oggi, svilupperebbe gli stessi temi trattati, oppure indirizzerebbe la sua produzione su altri argomenti?
Rifarei gli stessi errori che ho fatto e che faccio oggi più di ieri; sembra un discorso strano, ma è così perché negli ultimi anni non riesco ad esprimermi come vorrei, e ciò lo considero un errore; certo è un errore in fotografia non riuscire a concretizzare i pensieri nel modo in cui voglio. Dipingendo puoi inserire o togliere qualsiasi cosa, fotografando no, perché ti servi della realtà, ed attraverso un mezzo meccanico non è facile restituire quello che senti dentro. L’importante è ciò che hai di fronte, il soggetto o l’oggetto, il quale deve essere guardato concentrandosi per far sì che quello annulli te e la macchina, dando vita ad una emozione. Generalmente nella fotografia dei paesaggi, più che nelle figure, ho sempre pensato che è il paesaggio che sceglie me e di questo ne ho la prova, infatti quando andavo a fotografare con gli amici, camminando lungo le strade di campagna io vedevo che c’era da scattare e dicevo loro: “Madonna che paesaggio!” e mi sentivo rispondere: “Quale? Quello là?”, vuol dire che non vedevano. Gli occhi abbracciano chilometri di terra, ma questi chilometri comprendono quei dieci metri, o quel metro che sono messi in una posizione particolare, come una donna quando si può far notare, ecco a me il paesaggio in quel momento ha dato queste emozioni, l’ho fotografato con lo stesso trasporto con cui l’immagine mi ha scelto. C’è poi un gioco magico che ho sempre detto e pensato, in fotografia è bello studiare il paesaggio perché tu lo vedi di fronte ai tuoi occhi, lo fotografi, porti via l’immagine, ma tutto rimane come prima e questa è una cosa davvero incantevole.

Sembra che il mondo della fotografia si avvicini sempre più al digitale, come vede questo sodalizio?
Penso che il progresso non si possa fermare, quindi va bene tutto, anche se mi sforzo per non sapere e faccio finta che non esista nulla di ciò. Questo è un discorso lungo e breve, bisognerebbe provare ad analizzare ogni cosa in tutte le sue sfaccettature, solo allora ci si accorge quanto è importante quello che buttiamo via. È giusto che ci sia l’era del digitale, per molti sarà importantissimo, ma per chi ha altre cose da dire… potrebbe risultare inutile, no?! Perché è come se dicessi: “Che matita ha usato Leopardi per scrivere la tal poesia? Poi… ma lo sai, adesso è uscita una nuova marca”. Il valore non è nel mezzo, ma in ciò che esprimi.

Lei crede che in Italia la fotografia artistica sia abbastanza conosciuta ed apprezzata dal grande pubblico?
In Italia la fotografia non è conosciuta, io non la chiamo fotografia artistica, perché il termine arte consiste in una parola talmente grande che la mia bocca non pronuncerà mai, anche se adesso c’è una gran confusione in questo campo, come del resto nella pittura e nella poesia; basta comperare una macchina fotografica e già vedi scritto: “l’artista…”; ma quello chi è? Non so neanche se esiste l’arte! Personalmente affermo l’esistenza dell’artista e di ciò che produce, ma non posso dire che quella espressione sia da considerarsi un’opera d’arte, non sono io a stabilirlo. In Italia si dorme abbastanza rispetto all’Inghilterra, alla Francia, al Giappone e all’America, proprio quest’ultima nel settore fotografico si trova sempre un passo avanti agli altri, non so perché?! Gli Stati Uniti riescono a dare il giusto valore alla fotografia, infatti, è insegnata nelle scuole e le persone sono molto più preparate. Non basta comprare una macchina fotografica, della carta sensibile e sentirsi fotografo capace, non basta comprare dei pennelli, una tela e sentirsi un pittore… in ogni espressione d’arte è necessario amare quello che fai, crederci, avere le capacità, pensare che tutto costa dei sacrifici e poi documentarsi, cioè frequentare una scuola per avere delle basi fondamentali di preparazione, a meno che non si incontrano delle persone che abbiano un dono di natura straordinario, le quali non hanno nulla da imparare, come disse Mirò il primo giorno di scuola ad un insegnante, tirandogli in faccia un libro.
dp